Alice Pasquini, in arte Alicé, nata a Roma nel 1980, è una delle (poche) Signore della Street Art italiana e internazionale. I suoi lavori sono visibili lungo le strade di varie città italiane e straniere, come Amsterdam, Barcellona, Berlino, Londra, Madrid, Marsiglia, Napoli, Oslo, Parigi, San Francisco, Roma.
Buongiorno Alice.
Tutti noi disegniamo, o abbiamo usato tempere e pennelli qualche volta, ma non in tutti scatta la scintilla che accende il fuoco artistico; come si è accesa per lei questa passione? L’avvicinamento alla strada, ai suoi muri, invece, a cosa è dovuto? Quando, infine, si è detta: “Sono un’artista.”?
A tre anni ho detto a mia mamma che sarei diventata una pittrice da grande. A tredici anni, quando mi sono impuntata per andare al Liceo Artistico i miei hanno storto un po’ il naso, ma sono riuscita a completare l’intero percorso, dal liceo all’Accademia di Belle Arti. Nel frattempo erano gli anni ‘90 e a Roma si diffondeva la cultura Hip Hop con la quale sono venuta presto in contatto e che mi ha insegnato un’altra forma d’arte, ovvero l’utilizzo degli spray. Io ho sempre saputo che avrei fatto arte, ma non pensavo che un giorno avrei girato tutto il mondo e dipinto su grandissime superfici, per cui non era un percorso scontato. Facevo una cosa che era all’avanguardia ma senza averne la consapevolezza.
Cosa vuol dire dipingere per le strade?
Tutto nasce dal desiderio di creare un’arte viva capace di trasformare gli angoli delle città in luoghi più umani. Parlare di sentimenti universali, raccontando piccole storie private nello spazio pubblico. La spinta deve essere nata come reazione all’accademismo, un insegnamento troppo lontano dalla mia idea di arte. Lungo la strada sono state le persone, forse prima di me, a capire quello che stavo facendo e a spingermi ad andare avanti.
Ci sono “muri” che, come idea, le piacciono di più di altri? sia per composizione, sia per posizione/contesto…
Dipingo in un contesto e per un luogo specifico. In questo senso ogni opera, ogni muro, è strettamente legata all’ambiente circostante e non potrebbe esistere (allo stesso modo) altrove. Negli ultimi dieci anni ho attraversato le città del mondo disegnandone la mia personale mappa. Così ogni luogo, per quanto differente per storia, cultura, colori è sempre stato un’esperienza unica perché ci ho lasciato un pezzo di me. Nel mio libro monografico -che da poco ho realizzato- ho contato almeno mille muri, per cui ormai perdo veramente il conto. Per me ciò che conta in quest’arte è il momento in cui viene fatta perché a differenza di un’arte che viene prodotta in solitaria in studio, quest’arte evolve a contatto con le persone e con la storia del quartiere. E continua a evolvere anche quando un artista va via. Questo tipo di pratica è sempre collegata alla realtà. Nel momento di dipingere è la forma del muro, la sua storia e il suo contesto a suggerirmi un determinato soggetto o l’uso di un colore. A volte le cose possono cambiare in corso d’opera. In strada non si sa mai cosa può succedere e, in fondo, un muro non è una tela.
Se devo scegliere un luogo per suggestione e affetto, oltre a Roma, la mia città, sarebbe il paese di Civitacampomarano in Molise.
Ha detto che “ciò che conta è il momento in cui viene fatta”, ed essendo fatta in pubblico, sono portato a chiederle se c’è un aspetto performativo in questo tipo di arte…
Non mi interessa che le persone mi vedano dipingere, piuttosto ciò che per me è importante è lo scambio diretto con il pubblico (succede spessissimo che ci sia uno scambio di domande), il quale influisce sulla mia creatività. Voglio dire… la mia creatività, nel momento in cui opero per strada, è influenzata dal passante (con il quale si instaura, talvolta, una grande confidenza).
La grande maggioranza dei muri che dipinge riporta volti e corpi di donne o di bambine, quale ruolo rivestono queste “figure” nella sua arte?
Descrivo le donne che incontro, sognatrici, vere, forti, indipendenti, sicure di se, bambine curiose, impertinenti, creative. Sentimenti che raramente vediamo rappresentati nelle nostre città dove invece abbondano, ad esempio, le pubblicità in cui la donna è rappresentata piuttosto come un involucro.
Cosa è la Street Art, questo Muralismo contemporaneo? E, ancora, quale è la caratteristica saliente di questo modo di fare arte, dal passato “anti-sistema”, e dal presente, in alcuni casi ancora controverso, ma ormai integrato nella struttura socio-artistica?
Negli ultimi anni c’è sicuramente più interesse verso questo tipo di arte per questo, la moda -prima- e qualche multinazionale -dopo-, hanno iniziato ad interessarsene per alcune campagne. Paradosso e allo stesso tempo il segno del tempo che cambia.
La storia che si ripete. Finito il momento di rottura ogni avanguardia viene inglobata nel mercato. Comunque vada questo movimento ha lasciato un segno.
“Street Art” nei musei e nelle mostre. Sì o no? perché?
Perché no. Pensiamo ad esempio a Basquiat o Keith Haring. Nonostante possa sembrare una contraddizione se un artista è un artista lo sarà sia all’interno che all’esterno. Voglio dire che in galleria si possono realizzare opere che in strada non sarebbe possibile realizzare, perché più fragili o intime. Per quanto mi riguarda lavoro, ad esempio, su supporti diversi, materiali di recupero che riporto dai miei numerosi viaggi e che prendono vita quando ho un’idea per una mostra. Altro discorso è quando le opere, pensate per la comunità, vengono rubate dalla strada per essere esposte dentro ad un museo. Strappare le opere dalla strada per realizzare delle mostre non ha senso, perché le opere nascono per quel contesto, per quel luogo, per quella comunità.
Sia nel caso di un’opera “spontanea” sia nel caso di una commissionata, quale è la molla che fa scattare l’idea che porterà all’opera?
Il contesto. Infatti preferisco il termine “arte contestuale” a quello di Street Art.
Condivide con altri le idee per le opere o è una “solitaria” della creazione artistica?
Sono una solitaria. Ma ho collaborato con artigiani, fotografi, artisti molto diversi da me, nel caso di alcune mostre o sperimentazioni.
Alicé, il suo nome d’arte…
Sicuramente l’idea di firmare con il mio vero nome e quindi di far capire agli altri che era una donna a dipingere quei muri è stata una scelta, perché stavo portando in strada un linguaggio diverso. La rappresentazione della donna da parte dei miei colleghi maschi era molto stereotipata, quindi per me era importante usare un linguaggio che mi rappresentasse completamente, partendo dalle tecniche pittoriche più accademiche, ma con uno stile diverso che raffigurasse comunque lo spirito femminile.
Come interpreta il fatto che spesso venga ricordato che lei è una delle poche donne a svolgere questo tipo di attività artistica?
All’inizio non c’erano molte donne a fare Street Art, ancora oggi siamo molto poche. è successo più volte nel dipingere muri molto grandi che i passanti mi chiedessero “Ma l’hai fatto tu da sola? Ma ce la fai?”. Oppure che facessero i complimenti a qualsiasi maschio, fidanzato o amico che fosse nei paraggi, come se fosse stato lui a dipingerlo. C’è la sorpresa e la curiosità di vedere una donna fare questi lavori molto grandi…
È un’attività fisicamente faticosa…
Certamente, quando si tratta di quattro o cinque piani di palazzo è molto faticoso. Oltreché difficile, non usando ausili tecnici (proiettori o griglie, ad esempio) fare delle proporzioni anatomicamente corrette non è affatto semplice.
La bellezza di un’opera d’arte: dov’è? cos’è? È importante?
Questa è un’arte effimera, quindi accetto che le mie opere spariscano una volta che sono andata via, però vedere dei piccoli disegni che resistono per decenni è quasi incredibile, perché sono così vulnerabili che potrebbero essere cancellati da chiunque. Invece ce ne sono tanti che stanno lì e sono difesi dai cittadini e da chi ci abita vicino. Questo è molto bello, perché vuol dire che si è instaurato un dialogo con il contesto e questo è lo scopo della mia arte.
Quali progetti per il prossimo futuro?
Civitacampomarano, 2015
f.: J. StewartCivitacampomarano, 2015
f.: J. Stewart
Sono spesso in viaggio, vengo chiamata a dipingere in tantissimi luoghi. Ma c’è un progetto in un luogo al quale sono legata. Questa è la storia: una ragazza mi ha visto in televisione e mi ha invitata a dipingere in un piccolissimo e sperduto borgo del Molise, senza rendersi conto che mi stava scrivendo proprio dal paese di mio nonno. Per quella coincidenza incredibile sono tornata lì e ho trovato il paese della mia infanzia completamente abbandonato. Il Molise è una terra simbolo dell’Italia dimenticata. Ho cominciato a dipingere le scene del paese di un tempo sulle porte delle case abbandonate (foto sopra a destra: la scena raffigurata (donne di ritorno dalla campagna) è ripresa da una vecchia fotografia –ndr–). Hanno cominciato a tornare i turisti. Ho pensato allora che forse l’arte poteva salvare questo posto. E così è stato: da oltre sei anni ho portato a Civitacampomarano più di trenta artisti internazionali (il riferimento è a CVTà Street Fest di cui Alice è direttore artistico -ndr-) e adesso il paese sta rinascendo grazie ai turisti, grazie agli stranieri che hanno comprato case, grazie alla solidarietà che si è formata attorno a un’idea di resistenza basata sull’arte, quindi l’intero borgo si è rimboccato le maniche e ha deciso di non sparire scommettendo sugli artisti.
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