Interviste

Sophie Ko

Sophie Ko

Buongiorno Sophie. Da Tblisi a Milano, perché?  

Per ragioni di studio. Avevo terminato l’Accademia in Georgia e avevo la possibilità attraverso una borsa di studio di proseguire ancora all’estero, così mi sono iscritta al biennio specialistico di Arti visive all’Accademia di Brera.

Come ha trovato la scena artistica milanese?

Indubbiamente molto vivace, ma anche molto incline a lasciarsi trascinare dalle logiche della moda. 

A proposito di vita artistica: frequenta artisti e ha modo di confrontarsi con essi? con chi, in particolare?

Gli artisti che amo e di cui frequento le opere spesso sono molto lontani nel tempo.  Ci sono mille modi per confrontarsi con un’opera o con un autore anche senza una frequentazione diretta, credo. 

Sollevazioni. Polveri di altri cieli, 2020 (courtesy: Galleria Building, Milano)

Da quanto tempo lavora con le polveri? come hai iniziato e da cosa nasce quest’idea? cosa l’ha ispirata?

Ho iniziato a lavorare nel 2009 con la cenere delle immagini, mentre i primi lavori con il pigmento sono del 2011.
La polvere si posa sempre su «qualcosa», è questa sua vocazione di rifiutare il nulla e di affermare la cosa  che trovo estremamente prezioso in questo materiale. Inoltre, la polvere ci ricorda che «polvere sei e polvere diventerai».

Alla sua mostra alla Building di Milano molte opere sono composte da teche che intrappolano polveri e pigmenti. Un’opera, in particolare, incorpora come materiale cenere d’immagini: quale è la motivazione di tale scelta? Cosa dovrebbe accendersi nel fruitore sapendo che si tratta di immagini bruciate? infine, a quali immagini ha dato fuoco per Al termine della notte?

Di solito le materie che uso per i miei lavori, hanno sempre una valenza simbolica.
Nel mio lavoro il fuoco appare allo stesso tempo come forza distruttiva e come testimonianza della capacità di resistenza che l’immagine mostra ben oltre la sua dimensione di traccia. Così una Geografia temporale è un’immagine allo stesso tempo vecchia e nuova, fatta di mobili resti di altre immagini e nuove forme mutevoli. La cenere delle immagini bruciate è la fine dell’immagine, traccia di vecchie immagini, ma è anche un “nuovo inizio”; la materia di cui è fatta l’immagine rappresenta sia il residuo di immagini passate, che il ritorno di un’immagine in una nuova forma.  Nelle Geografie temporali l’immagine continua a bruciare non solo come senso delle immagini scomparse, ma anche come “figura” che trae vita dalle spoglie di ciò che è distrutto. Il bruciare delle immagini è ciò che porta con sé la vita passata nel presente, è il crescere della vita che resiste alle forze distruttive del tempo. Inoltre possiamo pensare alla cenere come luogo del custodimento: penso al fuoco custodito sotto le ceneri.  Quindi come un luogo dove le due dimensioni primarie la vita e la non-vita sono in continua tensione e quindi in divenire.
Per Geografia temporale. Al termine della notte, ho usato la cenere delle pagine relative a voci artistiche di un’enciclopedia.

Geografia temporale. Al termine della notte, 2019 (courtesy: Galleria Building, Milano)

Ho avuto modo di conoscere e frequentare altri artisti che usano, a volte interamente, ali di farfalla nel loro lavoro e mi sono sempre incuriosito circa l’origine pratica e concettuale di questo “materiale”. Come si procura le ali e quale significato attribuisce ad esse? E come si è resa conto che le ali della farfalla potevano diventare materiale artistico?

Certo. la farfalla da sempre viene rappresentata, proprio per la sua valenza  simbolica  e sono stati tantissimi artisti a utilizzarla anche come materia.
Le ali provengono da collezioni di farfalle che acquisto per poi utilizzarle nelle opere. La farfalla è simbolo di bellezza ma anche della caducità della vita, e quindi del tempo che scorre inesorabilmente, che è il filo rosso sotteso a tutte le mie opere . Per quel che riguarda il mio lavoro nel 2015 ho fatto un corpo di lavori intitolato Pollini che sono realizzati solo con il polline che ricopre la superficie delle ali di farfalle. Facendo questi lavori, le ali si strappavano e rimanevano piccolissimi frammenti, quasi irriconoscibili che mi colpivano per le forme lacerate che presentavano. Allora li ho tenuti da parte. 

Ci sono artisti (contemporanei o passati) ai quali si è ispirata o si ispira? Se sì, per quale ragione?

In qualche modo tutto quello che amiamo ci plasma. Ora non so come e in che modo, ma i fiori secchi di Mario Mafai, le opere di Beato Angelico, la pittura rinascimentale, le icone, e le pitture rupestri sono sicuramente immagini che sento molto vicine e su cui torno costantemente a riflettere. 

Mi ha particolarmente fatto pensare, non solo per la distanza formale dalle altre opere ma anche perché ritengo sia un’opera estremamente poetica, “Un nido”. Mi può raccontare la genesi di quest’opera? e cosa significa per lei?

Un nido, 2019

Formalmente credo che il nido  richiami  una crepa, una frattura, di quelle che si trovano nelle Geografie temporali. La scelta del materiale è simbolico. Il nido come un luogo del nuovo inizio, della nuova forma di vita. Questi rami sono stati selezionati da un uccello e plasmati uno a uno. Questi sottili filamenti di legno hanno accolto una nuova vita, più di una, e ora anche sotto un’altra forma si tengono fra di loro, sono «legati» creando un orizzonte immaginario , che indica un nuovo approdo, un nuovo radicamento.

Le poetiche minimaliste e concettuali che influenze hanno avuto sul suo lavoro? Ritiene che esse abbiano ancora un loro valore attuale, diverso -intendo- dalla loro rilevanza per la storia dell’arte?

Credo che almeno in modo consapevole non abbiano avuto una grande influenza. Sulla seconda domanda non saprei rispondere… io credo che l’arte purché abbia diritto di dirsi tale, deve in continuazione avere un forte legame con la vita e la morte. Tutto il resto è solo estezizzazione e gioco stilistico.

Quale scelta ha motivato il titolo della sua sezione Atti di resistenza? e come si relaziona, secondo lei, con il titolo principale?

L’intera mia mostra va vista a partire dal titolo: Atti di resistenza. Ogni opera cerca, in un modo specifico, di mettere in scena modi di resistere alla distruzione della esistenza e allo svanimento del senso. Ho messo in immagine tutto questo ponendo in centro la distruzione della materia agito da forze: prima fra tutte il tempo a cui si può opporre una forza di resistenza. Nonostante tutto precipiti come la sabbia nella clesidra c’è qualcosa che prende forma e resiste.

A proposito di titoli: l’immagine, per così dire, precede il lavoro o emerge “a opera fatta”? come nascono, insomma, quelli delle opere?

A volte il titolo precede l’opera, ma molto spesso arriva dopo, come un chiarimento attraverso le parole di ciò che è accaduto in immagine.

Geografia temporale. Vanitas del giorno, 2019 (courtesy: Galleria Building, Milano)

La bellezza di un’opera d’arte: dov’è? cos’è?

La capacità di radicarsi nella vita, dando un’altra durata a ciò che si ama.

L’ultimo libro che ha letto e quello sul suo comodino.

Mi hanno sempre colpito tutti tipi di diari sia in forma scritta che la raccolta dei disegni, che le persone tenevano anche clandestinamente nel carcere o in guerra: appunto come atto di resistenza.

Infine una domanda di stretta attualità: pensa che la situazione che stiamo vivendo, questa emergenza epidemia, avrà conseguenze sul suo lavoro e in generale su quello degli artisti?

Non so altri, per avere qualche visione precisa ho bisogno del tempo, per ora tutto è troppo vicino. 

Grazie, Sophie.

Grazie a lei.

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