“Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, /per questo i miei persecutori /cadranno e non potranno prevalere”
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Ed eccolo, affrescato da Piero della Francesca, il prode valoroso a cui Geremia si affida: possente e monumentale emerge da un sarcofago, impugnando il vessillo biancocrociato, emblema in cui è inscritta la caduta della morte; il sudario è ora la bella toga rosa del generale vittorioso che trattenuta al ginocchio dalla mano sinistra si dispone con eloquenti panneggi sul corpo. Attraverso un’architettura classica composta da colonne scanalate, architrave e basamento, ambientata in un paesaggio collinare e al cospetto di armati dormienti, assistiamo alla Resurrezione di Cristo.
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La composizione, perfettamente bilanciata, ha il suo punto focale nel volto barbuto del Cristo, dal quale si discende, allargando la visione, fino ad abbracciare la disposizione piramidale cui dà vita con i soldati sdraiati ai piedi del sarcofago. Il Risorto, possente, geometrico è anch’esso simmetricamente disposto e bilanciato sulla linea immaginaria che passa dal punto sulla fronte ove i capelli si dividono, al naso e giù lungo lo sterno; il ginocchio piegato equilibra l’avambraccio destro che regge lo stendardo. Cristo è inquadrato dal filare di alberi sulla destra e dal poderoso tronco dell’albero-colonna sulla sinistra. Alla massiccia porzione inferiore, gravata dagli armati e dal sarcofago fa da contrappeso la porzione superiore. Cristo ritorna in un paesaggio spoglio, terroso e contro un cielo sfumato che ritaglia nel vuoto il suo volto.
L’armonia della composizione non è l’unico elemento che garantisce l’omogeneità della raffigurazione, ad essa contribuisce soprattutto la luce: una luce che, bagnando l’intero affresco, rende diafani i colori, quasi slavati.
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Il punto d’osservazione leggermente ribassato e l’impostazione verticale dell’intera raffigurazione eliminano il punto di fuga e riducono la profondità dei piani privilegiando una lettura da sinistra a destra: un paesaggio quaresimale abitato da alberi spogli diviene, oltrepassata la Resurrezione, un ambiente castamente primaverile, caratterizzato da una vitalità pudica, discreta, lenta a crescere, quasi in attesa di una risposta ad una domanda non ancora posta. I paesaggi pierfrancescani spartiscono, con i suoi personaggi, una pacatezza iconica quasi indifferente; una lentezza che può apparire immobilità, espressione, tuttavia, di un moto non soprannaturale o divino, ma piuttosto oltre-umano, “geologico” in concordanza con quella concezione umanistica e albertiana della necessità di una pittura che rappresenti quelle leggi fisiche, che sempre sono, grazie alle quali l’uomo può leggere e vivere il mondo. Nel piede che calca il sarcofago, infatti, nel ginocchio piegato, noi vediamo questo movimento serotino, che ben si accorda alla gravitas classica che denota i soggetti di Piero, ma che, qui, definisce inoltre il risorgere del Cristo come fatto eterno che supera la vita individuale senza ignorarla.
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Definitivamente, quel che colpisce in quest’affresco e che soprattutto oggi interroga in questo saliente momento in cui la vita umana è spinta a trasformarsi in semplice esistenza, è lo sguardo di Gesù che malinconico, quasi desolato e rassegnato, oltrepassa noi spettatori, non senza aver depositato in noi la domanda fatidica: “Quando arriverò, vi troverò dormienti o desti?”, ben sapendo che, qualsiasi sarà il nostro stato, Egli sarà capace di attendere la nostra risposta, eternamente.
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