Arte contemporanea

“The End” – Heather Phillipson

L’ultimo lavoro scultoreo di Heather Phillipson (artista inglese, classe 1978) è una imponente struttura di 9 metri: un mucchietto di panna montata sormontata da una ciliegia e sul quale sono posate una mosca e un drone. Non è certamente una delle opere più tipiche dell’artista, lavorando principalmente all’intersezione tra video, installazione, musica ma anche poesia e disegno.

Il lavoro avrebbe dovuto essere installato sul celebre quarto plinto in Trafalgar Square, in marzo, l’ultimo di una serie di interventi intesi a portare nella centrale piazza londinese espressioni di arte contemporanea (ad esempio, tra il 2005 e il 2007 funse da basamento per la dibattuta scultura di Marc Quinn, Alison Lapper Pregnant, oppure tra il 2010 e il 2012, ospitò un’opera di Yinka Shonibare, La nave di Nelson in una bottiglia). Ma nel giorno previsto per l’installazione, in Gran Bretagna è scattato il lockdown. Il titolo dell’opera, “La fine” (The End), inoltre, pesava particolarmente, in un momento cui la situazione sanitaria stava volgendo al peggio.

Quattro mesi dopo la data prevista, comunque l’opera posizionata è stata svelata e resa pubblica. 

H. Phillipson e The End
(ⓒDavid Parry/PA Wire)

La genesi di questo lavoro risale al 2016, concepito non molto dopo la decisione inglese di abbandonare l’Unione Europea. L’incertezza che stava di fronte al popolo inglese a seguito della scelta fu una delle spinte alla realizzazione dell’opera, il senso di precarietà e insicurezza di quel periodo ha preso quindi la forma della panna montata che comincia a colare (importante: non è ancora colata, ma siamo all’inizio, ai momenti iniziali in cui la struttura della panna comincia a sfaldarsi) lungo il basamento. La contingenza legata al diffondersi del Coronavirus ha apportato ulteriori possibilità interpretative all’opera, e non sono, in effetti, mancate allusioni in tal senso -facilitate dalle vicissitudini legate all’installazione.

Tuttavia, ammette l’artista, le persone possono dare all’opera i significati che che ritengono più congrui e opportuni.

Infatti, nei lavori dell’artista è molto facile distinguere due livelli di lettura: se da una parte essi si presentano con caratteristiche facilmente amabili quali la musica, i colori sgargianti, la luminosità, l’aspetto fumettistico, dall’altra essi incorporano anche elementi capaci di portare l’attenzione del fruitore su aspetti più seri, gravi: sono questioni ecologiche e animaliste (l’artista è vegana) quelle che generalmente si affacciano nelle opere della Phillipson.

In quest’opera questa possibilità di doppia lettura è espressa con chiarezza. Ci si può limitare ad osservare la scultura per come si presenta: apprezzando il suo gigantismo, le sproporzioni tra i suoi elementi, i colori brillanti, sorridendo davanti all’enorme ciliegia che troneggia sulle volute di panna e disgustandosi per la mosca e per il drone (entrambi neri, entrambi posanti le loro disgustose zampe sul gustoso dolce evocato dalla scultura); dall’altra, proprio concentrandosi sugli elementi che costituiscono l’insieme si può andare oltre la superficie. Ad esempio, l’analogia percettiva di questi due ultimi dettagli è un ulteriore spunto di pensiero. Si passa così ad un altro livello di lettura. Entrambe queste entità nere e insettiformi succhiando si alimentano: la mosca la panna, il drone la nostra riservatezza. Basterebbe questa constatazione per interrogarsi sulla questione della videosorveglianza, in una delle piazze più videosorvegliate di una delle città più videosorvegliate del pianeta. Ma l’opera compie un ulteriore passo. Nel drone è installata, infatti, una telecamera funzionante che inaugura una sorta di gioco di reciprocità: l’opera -diciamo così- guarda attivamente, con il suo occhio instancabile e impassibile, noi che la guardiamo. In realtà, la reciprocità è solo di facciata: il drone non smette di osservarci quando noi smettiamo di guardare la scultura. L’opera diventa, di fatto, uno strumento di sorveglianza “sotto copertura”, ammantata dell’aura dell’arte. L’arte, o meglio, la concezione che dell’arte si ha in specifici contesti storici è spesso espressione delle idee delle forze socio-economiche al potere in quel particolare momento; le opere d’arte diventano così puntelli della propaganda e del mantenimento del potere. In questo caso, però, l’opera non svolge unicamente un ruolo di diffusione di idee, ma  diviene (o può diventare) vero e proprio, funzionale e funzionante, strumento di controllo. L’opera ci mostra come il controllo continuo e totale passi sotto i dolci nomi di tutela, di garanzia, di sicurezza e la pervasività della raccolta delle informazioni si nasconda sotto coperture piacevoli, comode e anche belle. Ecco: il controllo totale, completamente accettato perché contrabbandato sotto dolci e comode sembianze è la “ciliegina sulla panna”: proprio lì si posa, infatti, il nostro drone.

Ancora, abbiamo detto che la panna non è ancora del tutto sciolta, siamo ancora all’inizio della fine. La domanda è semplice: riusciremo a recuperare la panna? o la lasceremo colare definitivamente? Si compirà il transito definitivo da questo modello sociale ad un altro? Come si sa, ogni fine cela in sé anche un inizio… Ma poi, la panna cola perché si sta disgregando, o sono i pesi di ciliegia e drone che spingono la panna oltre il plinto? 

My name is lettie eggsyrub, 2018

Simili approcci non sono estranei neanche ad altre opere dell’artista inglese. Sotto questo punto di vista, non distanti sono ad esempio due recenti lavori: la grande installazione (80 metri) sulla banchina in disuso della fermata della metropolitana di Gloucester Road (giugno 2018 – giugno 2019), intitolata “My name is lettie eggsyrub” (schermi televisivi e sculture in stile fumettistico a forma d’uovo) e sempre nel 2018 “The Age of Love”, un’installazione ambientale disturbante in cui video psichedelici e chiassosi di gabbiani in volo e di figure feline contendevano la scena a macchinari agricoli disposti nel grande ambiente oscurato del Baltic Center for Contemporary art di Gateshead.

È stato detto che questa scultura richiama la pratica surrealista della giustapposizione: si accostano oggetti senza relazione per dare loro un nuovo significato. La presenza del drone sicuramente invita a questo tipo di accostamento, anche se manca del tutto un elemento fondamentale del Surrealismo per farne il riferimento più prossimo: mancano cioè il ricorso all’inconscio, al sogno, all’automatismo; i componenti di questa scultura costituiscono, al contrario, un’espressione molto consapevole del pensiero dell’autrice. L’aspetto surrealista può essere più evidente non tanto dunque nei particolari dell’opera stessa quanto nel rapporto tra la scultura e il luogo: tra le varie opere contemporanee che hanno dimorato sul “fourth plinth” in Trafalgar Square, una piazza monumentale, austera, celebrativa, insomma ottocentesca, questa è forse quella che più si discosta, nella sua espressione formale, da questo orizzonte di severità e imponenza.

The End e Trafalgar Square
(ⓒKeith Mayhew/SOPA Images/LightRocket via Getty Images)

Dal punto di vista formale e plastico, l’antecedente più diretto mi pare sia da ritrovare nelle ipertrofiche sculture pop di Claes Oldenburg, smisurate, colorate, chiassose, sfacciate private però della loro ironia giocosa e, in fondo, compiacente con il sistema di vita degli anni Sessanta. Qui, sotto la superficie allegra, batte un cuore di tenebra, o, comunque, un’ironia amara, preoccupata di ciò che può accadere o già sta accadendo alla società occidentale del 2020. Mezzo secolo e più non passa senza lasciare tracce…

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