Una bellezza più ironica e giocosa è il clima che si respira nella sezione dedicata a Marco Andrea Magni, “Esercizi di ammirazione”. L’artista si rifà ad una dimensione più domestica e privata, addirittura casalinga, che giustifica la presenza di un grande vaso e di un’anfora (entrambe fatte con sabbia di battigia recanti il medesimo titolo: Risvolto, 2020), del profumo che esala dai suoi quadri (Giallofumo e Verdefumo del 2020), delle citazioni vergate su carta da lettere e incorniciate (Parabola, 2020), e delle mattonelle di sale (usate in cucina) inframmezzate da fogli di carta zuccherina (Saliscendi, 2018-2020). Tonalità che dal rosa pastello virano al mattone sono il leitmotiv della sala e sono garanti di un’atmosfera serena e rilassata, oltreché richiamo all’epidermide e alle sensazioni tattili del velluto (Ora, 2015-2020) e dei filtri (Gola, 2020).
La tranquillità serena della prima porzione di mostra si sviluppa, nella seconda sala, in una giocosa esplosione di colori con due opere, Verdefumo, in cui un bianco abbagliante contende la superficie ad un verde denso e quasi pastoso, in un felice contrasto tra l’esuberanza del primo e la profonda calma del secondo, e Giallofumo, il cui pigmento giallo che scende dall’alto addensandosi (o sale dal basso rarefacendosi) sviluppa, attraverso passaggi delicatissimi, delle nuance vellutate, morbide, tattili, insomma, grazie all’impiego della carta Mouilletes. La fragranza profuma che emana dalle due opere è un tocco lezioso che non guasta. Un gioco di richiami alla opere della sala precedente, ma anche alle Sollevazioni di Ko del piano terreno…
Vivacemente ironico -quasi cabarettistico- Lo spazio punto, 2015-2020, opera che non deve essere descritta ma vista. Giustamente affiancata, per la innegabile carica concettuale, a Parabola, 2020: una serie di cinque dichiarazioni d’architettura riportate a mano su carta da lettere.
Ma cosa vuol dire il sottotitolo? Per chi ammira, il tempo si ferma (dice Diderot nei suoi Salons), si congela -aggiungiamo noi- nell’atto stesso dell’ammirazione, del volgersi con meraviglia verso qualcosa. È vero, richiami ad un tempo fermo sono presenti nelle opere in mostra: l’anfora, per esempio, è un manufatto associato ad un tempo antico, andato, ormai fermo; animato, solamente, dalla nostra ammirazione/immaginazione; e poi, la sabbia di clessidra che impreziosisce i velluti normalmente fluisce da un’ampolla all’altra, ma qui è ferma, intrappolata nel e sul velluto in opere significativamente intitolate Ora.
Ma allora, che tipo di esercizio può essere quello che non prevede lo svolgersi nel tempo? Quello che non ci fa passare da uno stadio ad un altro attraverso il lavoro che necessariamente prevede uno sviluppo temporale? È un esercizio -mi sembra di poter dire- paradossale. Un esercizio, un uscir fuori (secondo l’etimologia) che ci allontana da noi per farci godere di un tempo che si sviluppa in noi. Attraverso quella sospensione tipica della meraviglia (per la quale siamo spinti fuori di noi verso ciò che si fa guardare con ammirazione) ritroviamo in noi la capacità di far vivere quel tempo fermo che solamente la nostra ammirazione/immaginazione sa animare. Un’opera in mostra, Risvolto, 2020, che riproduce la forma di un’anfora, esemplifica bene questo stato: un oggetto di un tempo ormai passato rivive solo in noi, pensandolo e ricostruendolo.
Portandoci fuori dal nostro usuale modo di stare nel mondo, dimentichi del nostro essere così e così determinato ci invita alla scoperta di un tempo differente. Non solo, dunque, un invito, saggio e scontato, a riprendersi i tempi privati che la frenesia e l’abitudine moderna ci sottraggono; ma un esercizio per godere di un tempo che viviamo pienamente nostro solo quando, paradossalmente, siamo portati fuori di noi verso ciò che guardiamo con ammirazione gratuita e spontanea, dimentichi del nostro essere, appunto, così e così determinato nel tempo.
Se al piano terra ci troviamo a fronteggiare le geografie mentali di Ko, al primo piano ad essere mentali sono i passaggi temporali calati in un paesaggio domestico; paesaggi che si fanno pubblici e “reali” al secondo piano, visitando l’esposizione delle opere di Valerie Krause.
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