È una presentazione completa questa mostra sia dal punto di vista cronologico (parte dagli anni Ottanta per giungere al 2020) sia per quanto riguarda i materiali impiegati e le tematiche affrontate da Leiko Ikemura (Tsu, Giappone, 1951; vive tra Berlino e Colonia), l’artista svizzero-giapponese cui Building Gallery dedica “Prima del tuono, dopo il buio”, curata da Frank Boehm. Il percorso, formale e cronologico, consente di famigliarizzare con gli snodi dell’universo creativo dell’artista. Snodi che portano alla luce sia la versatilità nell’uso di differenti supporti materici (dal disegno su carta a matita, pastello o carboncino alla pittura ad olio o tempera su iuta o tavola, alla scultura in bronzo, vetro o terracotta); sia le predilezioni iconografiche che, attente alla figure antropomorfe -in particolare di tipo muliebre- e a quelle paesistiche, ritroviamo espresse con le differenti tecniche con cui l‘artista si cimenta, sia la trasversalità tematica (l’idea di un’apertura quasi passiva al mondo; il concetto di flusso vitale; la sessualità) che anima ogni confronto creativo di Ikemura. Nel corso degli anni vediamo scandirsi un progressivo allontanamento dalla figurazione che, comunque, fin dagli esordi, appare emozionale più che visiva, più votata all’espressività che alla mimesi, per giungere all’informale testimoniato dai dipinti più recenti.
La retrospettiva prende l’avvio al piano terra con i due dipinti che danno il titolo alla mostra (datati 2014-17). Oscuri quadri di grandi dimensioni, appoggiati al pavimento, come a voler scivolare accanto alle piccole sculture esposte di fronte agli stessi. Queste tele sorelle catturano immediatamente l’attenzione dello spettatore, trascinato nel quadro attraverso le due ampie macchie nere che occupano, silenti, la parte centrale dei dipinti: sorta di laghi incoronati da monti, sulle cui rive si sdraiano, sproporzionate, enigmatiche ed appena accennate figure femminili. Laghi come bocche nere sotto cieli plumbei un poco rischiarati da pennellate grigio-bianche e beige. Le figure che in essi vediamo dipinte sono come riprese nei piccoli bronzi (Lying in Yellow Dress e Sleeping Figure in Red, 1997, rifusi in anni più recenti) raffiguranti bambine sdraiate. È sempre il piano terra ad ospitare un colorato e vorticoso pastello paesaggistico (Untitled, 1983), insieme ad una manciata di disegni degli anni 80, in cui tratto deciso, fantasia esuberante e erotismo esplicito costruiscono forme d’ispirazione picassiana e atmosfere lievemente chagalliane.
Il primo piano è, invece, dedicato principalmente agli anni 90 con esempi della produzione scultorea (Ikemura inizia con la scultura in terracotta sul finire del decennio precedente) e pittorica. Le sculture tracciano un percorso che giunge alla figura umanoide (Affenbaby, 1995/2008) da iniziali forme biomorfe (Turmwurm, 1992/2019). L’allestimento dedicato a queste sculture tuttavia non convince. La pedana rosa che funge da basamento per i piedistalli delle sculture marca, tra queste e l’astante, una distanza, anche fisica, eccessiva. Queste sculture, minute per dimensioni e personalità, si ritrovano così in balìa dello sguardo più come oggetti pronti all’acquisto che come cose vive, aperte alla relazione e alla contemplazione. In altre parole, il meccanismo stesso che articola il meccanismo del White Cube viene qui ribaltato. L’annullamento di ogni relazione con la realtà del mondo comune, presupposto di questa tipologia allestitiva, è qui negato e capovolto: ritorna la realtà, quella della boutique del lusso, quella della merce pronta alla compravendita. Allora -potremmo spingerci a dire- questa scelta d’allestimento (concordata con l’artista, dicono in galleria) potrebbe essere considerata come gesto “duchampiano”, per il quale ad essere preso “bell’-e-pronto” è lo spazio, rectius una tipologia di spazio, quello del negozio e delle sue modalità di esposizione. Ma spingerci su questa strada sarebbe condurre la lettura della mostra e del lavoro ivi esposto ben oltre i limiti in cui deve essere contenuta. Torniamo, dunque, alle opere esposte. Riscatta le parole appena spese Light Face, 2021, una testa in vetro colato giallo, luminoso che risalta sulla superficie specchiante sulla quale è adagiata. Su questo abbozzo di testa è poeticamente impressa l’azione modellante delle mani di Leiko. Le teste, reclinate e dotate di una sorta di orecchio-bosco sono una forma ricorrente nell’universo immaginativo dell’artista giapponese, le vediamo scolpite e disegnate nella loro centralità. Sempre su questo piano sono mostrati alcuni dipinti (su legno o iuta) dei medesimi anni peculiarmente infantili ed espressionistici: figure umanoidi, sgraziate, fisiche, vagamente sessualizzate, incoscientemente tormentate, inebetite. Quasi anticipatrici del crepuscolo dell’uomo che avrebbe abitato quello che era, in quegli anni, il secolo veniente.
Lasciamo ora il piano e saliamo al successivo dove ci attende una sequenza di carboncini su carta dei dintorni degli anni Dieci del Duemila. Ispirati a due viaggi in Messico, ripropongono teste, volti (la serie è Black Face, 2008) alcuni con occhi aperti, altri con grandi orecchie, ma bocche sigillate. Recettori aperti passivamente al mondo. (Curiosamente anche le sculture al piano terra sono cave, aperte, ma dormono.) Sulla parete opposta tre disegni intitolati Mexican Afterworld, 2011, a mio giudizio, le opere più affascinanti di tutta la mostra. Paesaggi sospesi, fluttuanti, palpitanti, avvolti da una notte e vasta e cupa e silenziosa si lasciano osservare e paiono osservare essi stessi. Sembra attendano il manifestarsi di un evento, un sabba o un rito esoterico. Boschi dai quali emergono volti, occhi, popolati da creature amorfe e invisibili che stanno per manifestarsi. Luogo dei morti che attendono i vivi, dal quale provengono lamenti, fruscii, cachinni, litanie; in uno di essi sbuca un piccolo mammifero, sospettoso, guardingo ma non impaurito che da un angolo della composizione ci fissa attraverso orbite nere… Sogni spaventosi che Goya apprezzerebbe. Gli anni di questi disegni sono quelli della crisi e del crollo delle economie, dell’esplosione dei mutui subprime. Da dietro la facciata della scienza economica e delle sue “leggi” irrompe l’incontrollato, si palesano gli animal spirits, le creature indomabili che appaiono orribilmente di sotto il velo rassicurante dei calcoli e delle formule matematico-finanziarie.
All’ultimo piano, invece, la produzione più recente (2020); un gruppo di dipinti aniconici, non figurativi tenui di gialli, rosa, arancioni, grigi, decisi di neri, blu, bianchi. L’aspetto complessivo dei dipinti si giova dell’effetto della trama grezza della iuta che in alcuni punti, là dove il colore è steso con più parsimonia, smaterializza ancora di più il pigmento, approntando un’impressione di nebbiosa rarefazione. Qui le opere segnano un distacco deciso dalla figurazione, almeno nella resa rappresentativa, se non nell’ispirazione (alcuni titoli richiamano, infatti, orizzonti, montagne, laghi). Sono opere belle, colorate, equilibrate che tuttavia non riescono a raggiungere la sapienza della decorazione frenate dalla compostezza dell’orpello.
New Horizon, 2020 CRN Act e CRN Act, 2020
In conclusione una retrospettiva che svolge il suo compito di far conoscere il percorso artistico di Leiko Ikemura le cui opere nella fattura, nell’espressività, nella composizione complessiva hanno una chiara impostazione occidentale, eppure sembra riescano a mantenere un’impronta estremo orientale, soprattutto ed in particolare per quelle opere in cui la fisicità del corpo umano diventa paesaggio ed espressione del soffio vitale che tutto anima e avvolge, molto chiaro in opere come Mexican Afterworld, Trees ouf of a head II, 2015-2020 o Mountain Lake, 2017.
Galleria Building, via Monte di Pietà 23, Milano – 4 settembre 2021 ¦ 23 dicembre 2021
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