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The Sky in a Room

The Sky in a Room (ⓒ Marco De Scalzi)
Ragnar Kjartansson (ⓒ Elisabet Davids)

La celebre canzone di Gino Paoli, che viene cantata e suonata con arrangiamento organistico per sei ore consecutive, dà il titolo alla performance, ideata da Ragnar Kjartansson (Reykjavík, 1976) e curata da Massimiliano Gioni per la Fondazione Trussardi, visitabile fino al 25 ottobre.

The Sky in a Room

Di fatto ci si trova in una chiesa (San Carlo al Lazzaretto a Milano) ad ascoltare questa canzone ripetuta da un performer che canta e suona l’organo. Ritengo che l’aspetto più interessante sia l’impalcatura concettuale che regge la performance del duo Kjartansson-Gioni, che si sviluppa su due direttrici. Da una parte sta l’idea che essa possa rappresentare una sorta di “monumento” ai mesi trascorsi in cattività al chiuso delle nostre case durante la pandemia, e qui c’è da chiedersi se non sia fuori tempo, se non sia cioè troppo presto per ricordare quell’avvenimento che dichiaratamente ancora non è terminato, o troppo tardi per portare un diretto conforto ai rinchiusi, poiché, per adesso, rinchiusi non siamo più. La serietà dell’intento è comunque garantita dal rinnovamento quotidiano dell’azione che si ripete per sei ore al giorno. Ed in effetti, questa performance sembra la versione secolarizzata di una funzione cattolica in cui performer e organo occupano le posizioni del celebrante e dell’altare. con una caratteristica, a mio avviso, paradossale: l’azione smentisce gli assunti modernisti recepiti dalla Chiesa postconciliare e di cui l’arte moderna e almeno parte di quella contemporanea sono portatrici, cioè dell’idea di superamento della tradizione, soprattutto quando quest’ultima è europea e occidentale. Il performer, infatti, diventa il vertice di questa orazione laica, “celebrando” versus deum, o più popolarmente, con le spalle al popolo, come d’uso, appunto, nella liturgia preconciliare. L’aver scelto questa chiesa, legata alla storia delle pestilenze milanesi, quale luogo della performance è stata un’intelligente trovata del curatore, Gioni (che mi spinge quasi a considerare l’opera come opera realizzata a quattro mani: quelle del curatore e quelle dell’artista), che esplicita quanto importante sia il luogo nell’operazione di decifrazione di un’opera. Ci si chiede se Kjartansson abbia voluto lavorare sullo spazio ospitante o su “Il cielo in una stanza”.

San Carlo al Lazzaretto

L’allestimento operato in quest’occasione non modifica solo la ricezione dell’opera originariamente pensata per il laico National Museum di Cardiff (2018): ben diversa è la ricettività dello spettatore all’interno di uno spazio consacrato piuttosto che in uno spazio museale, possiamo dire dunque che l’artista ha lavorato sullo spazio; inoltre provando ad amplificare, storicizzandola, la consapevolezza del luogo ospitante. Ed infatti il secondo appoggio concettuale è l’idea che la canzone di Paoli “rivela”, afferma l’artista, “una delle caratteristiche fondamentali dell’arte: la sua capacità di trasformare lo spazio”. Concezione molto pittorica, per la quale l’illusione visiva agisce sulla percezione spaziale. Questo lavoro ha a che fare, dunque, con le proprietà spaziali del suono che entra in relazione con un’architettura. Le proprietà immaginifiche della musica sono equiparate a quelle delle arti visive non in un modo kandinskiano: non è qui in causa l’immediato accordo tra suono/colore e reattività emotiva, ma la potenza della parola cantata (il significato musicato). È la potenza della parola cantata, infatti, che evoca l’immagine del cielo in una stanza, alla stessa stregua di un dipinto che figurativamente evoca situazioni o paesaggi. Ma è anche vero che il luogo di ascolto agisce esso stesso sulla musica, la vela con la sua storia, la sua funzione, la sua personalità; l’architettura, insomma, riverbera sulla canzone stessa, la quale, in questo spazio sacro, dissipa il suo afflato di amore profano per acquistarne uno più corale, fraterno, comunitario.

The Sky in a Room

L’architettura, inoltre, austera e silenziosa e salda della chiesa ben si presta a fornire un contrappunto visivo alla aerea canzone e induce a chiedersi se ci si debba illudere che il cielo entri in essa (quindi, in fondo, confinandoci ancora al chiuso) o se ci si possa immaginare che la musica dissolva le pareti, riportando la chiesa ad uno dei suoi stadi storici, quand’era priva di muri. Purtroppo le norme antivirus che regolano l’accesso alla performance, prevedendo la permanenza all’interno solo per 20 minuti in piccoli gruppi (obbligatoria la prenotazione), non concedono il tempo di inseguire le proprie sensazioni e così il dilemma resta aperto…

In definitiva, una performance che lega all’aspetto sensibile una componente mentale molto ricca e stratificata, i cui estremi sono probabilmente a portata del spettatore, ma che rendono non immediata una sua totale fruibililità.

Chiesa di San Carlo al Lazzaretto, Largo fra’ Paolo Bellintani 1, Milano ¦ 22 settembre – 25 ottobre 2020

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