Pulviscolare. E non perché questa mostra, collettiva e personale insieme, sia dispersiva o inconsistente come polvere; ma perché la polvere, vera o evocata, funge da fattore comune a tutte e tre le sezioni dell’esposizione, ognuna occupata dai lavori di un solo artista. Polvere, dunque: dalle opere in cenere e pigmento puro di Sophie Ko (Tbilisi, 1981), alla sabbia di Marco Andrea Magni (1975), ai piccoli pois stampati di Valerie Krause (Krefeld, 1976). È evidente il debito di queste opere con le poetiche dei tardi anni ’50 e ’60 del Novecento -soprattutto, del Minimalismo (“padre” degli sviluppi successivi: arte concettuale, pittura analitica…)-: monocromi, forme elementari e geometriche, serie, sequenze e ripetizioni, parole.
Non si tratta di stanco epigonismo. Quelle lezioni sono sì riprese, ma aggiornate e animate da una maggior e più esplicita partecipazione emotiva.
Il merito di questa mostra è portare allo scoperto un postminimalismo allusivo ed evocativo, in cui il carattere razionalistico del Minimalismo storico viene intaccato, caricando le opere di suggestioni ed ironia, da istanze, da necessità espressive che non si fermano a quelle dell’arte-come-arte.
Una caratteristica comune a molti lavori in mostra è quella di agire come dispositivi di percezione fisica. Le opere di Ko risentono, nelle loro espressione plastico-formale, della forza di gravità (infatti, la massa di polveri e pigmenti non è definitivamente trattenuta in posizione nella teca che li contiene, ma è libera di muoversi assecondando leggi fisiche e spostamenti dell’opera); nei lavori di Magni l’occhio percepisce i giochi che la sabbia e la luce inventano sulla superficie del velluto; Krause, con una serie di pellicole trasparenti stampate a pois neri in densità variabile, crea una sorta di Passaggio di nubi che acquista movimento quando lo spettatore si sposta lungo tutta la parete che ospita l’opera. Lavori che sviluppano, dunque, una relazione fisica -un’interattività- con il fruitore e con l’ambiente circostante: esigenza che fu propria del Minimalismo.
A differenza dei loro predecessori, questi artisti, però, non rifiutano allusioni e non impediscono all’immaginazione di svolgere il suo compito. Fin dal titolo, le opere invitano il fruitore a passare oltre la letteralità, l’esplicita presenza dell’opera (si vedano, ad esempio, le Geografie di Ko, Lo spazio punto di Magni). I lavori di questa generazioni di artisti stanno facendo germinare quei semi che erano, in fondo, già presenti nell’arte minimalista laddove la materia era lasciata libera di presentarsi per sé stessa (senza, cioè, essere sottoposta al trattamento formante e formale dell’artista): mi riferisco, ad esempio, ad opere come Spill, 1966, di Carl Andre, oppure a Splashing, 1968, di Serra, o a quelle di Eva Hesse per poi proseguire, nei primi anni ’70, con i feltri di Morris. Semi innaffiati dalla generazione successiva e fatti sbocciare dalla generazione degli artisti in mostra. Possiamo quasi dire di essere ritornati ai primi esperimenti minimalisti di Stella, i cui Black Paintings, nel colore e nei titoli, suggeriscono prese di posizione civile e pathos.
Queste opere, dunque, tornano a tessere un rapporto con l’altro da sé, evocando situazioni esterne alle opere stesse. Si richiamano a temi importanti per la nostra era contemporanea: la pervasività delle immagini (Ko brucia fotografie), la bellezza (Magni, Grain de beautè, 2016-2020), l’hic et nunc (ancora Magni, Ora, 2015-2020), i non-luoghi (Krause crea un luogo che altro non è che puro e semplice Passaggio, 2006-2019).
Un raffronto tra queste opere e quelle di più schietta poetica minimalista esplicita le debolezze del Minimalismo storico “duro e puro”.
Il Minimalismo, estremizzazione artistica di una certa inclinazione esistenziale, come ogni estremizzazione ha avuto il merito di indicare i limiti di certe situazioni o atteggiamenti: in questo caso, esso ha mostrato un limite cui si è potuti giungere, in arte, grazie all’applicazione della ratio calcolante e materialista. Ma non poteva rimanere a lungo su queste posizioni estreme. La parte non calcolante, emozionale, istintiva, non può essere espunta per troppo tempo dall’Uomo e dalle sue manifestazioni vitali; ed ecco che già dalla seconda metà degli anni ’60 queste istanze fanno nuovamente capolino nel fare di alcuni artisti (c’è da notare che Lucy Lippard già nel settembre-ottobre del 1966 intuisce questa sorta di reazione nei confronti del Minimalismo “di stretta osservanza” juddiana con la mostra “Eccentric Abstraction” alla Fischbach Gallery di New York).
Un’altra differenza con le radici storiche di questi lavori riposa proprio nella presa di posizione che queste opere incorporano. Se negli artisti minimalisti (e nei loro predecessori costruttivisti con ben altra partecipazione!) le prese di posizione erano ideologiche, aperte ad aspetti più strettamente politici; coerentemente con il venir meno di queste ideologie e con il rilassamento di valori concepiti, almeno fino alla seconda metà del XX secolo, come forti e immutabili, la pratica postminimalista si è caricata di concezioni individuali. Sempre dell’Uomo si tratta, ma non nel suo aspetto sociale e più propriamente politico, ma nel suo aspetto intimo, individuale e quasi domestico.
Sono infatti istanze più interiori, quelle messe in gioco da queste opere: Sophie Ko espone il poetico sviluppo di Un nido, 2019, e dedica un’opera di un oro profondo velato di nero delle sue Geografie a I figli di Medea, 2019, che l’allestimento sembra mettere in rapporto; in due opere di Magni il profumo esalato è solo l’epicentro della domesticità che pervade tutti i lavori esposti; Krause si chiede, a mo’ di esame di coscienza, Dove (per), 2019.
Vi è dunque anche questa significativa diversità tra ciò che è stato il Minimalismo storico e questa sua evoluzione: un rivolgersi alle ansie soggettive ed individuali piuttosto che alle problematiche sociali e politiche. Attitudine che si fa evidente nell’apertura all’aspetto decorativo delle opere e nella ricerca di una piacevolezza sensuale che nei predecessori era volutamente tenuta più distante, quasi temuta.
Questo il sostrato che accomuna tutti gli artisti esposti, senza che esso appiattisca e omologhi l’individualità delle singole personalità, la quale, anzi, emerge dalle singole esposizioni.
Building, Milano – 29 gennaio 2020 ¦ 28 marzo 2020
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