Mostre

Alexej Jawlensky e Marianne Werefkin. Compagni di vita

Jawlensky, Ritratto di Marianne Werefkin, 1905 circa

Ad Ascona, al Museo Comunale, fino al 10 gennaio, si racconta una storia di vita e d’arte, quella di Marianne Werefkin (Tula, 11 settembre 1860 – Ascona, 6 febbraio 1938) e Alexej Jawlensky (Toržok, 25 marzo 1864 – Wiesbaden, 15 marzo 1941), compagni di vita, dal 1892 al 1921. Ma non è solo il racconto della vicenda di due artisti, di due esistenze votate all’arte, è anche la storia di un variegato, ricco, importante periodo culturale, quello che tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX aprì scenari immensi all’arte e alla cultura. Van Gogh morirà nel 1890, quattro anni prima gli Impressionisti avevano tenuto la loro ultima mostra, nel 1903 Gauguin concluderà la sua esistenza terrena, tre anni dopo Cézanne l’avrebbe seguito; nel 1907 Picasso e Braque avrebbero inventato il cubismo; poco prima, nel 1905, iniziava l’avventura fauve. Tutte queste esperienze e fermenti artistico-culturali emergono da questa ampia mostra curata da Mara Folini, autrice, inoltre, di un appassionato intervento nel catalogo che accompagna l’esposizione.

Werefkin, Atmosfera tragica, 1910

La mostra corre parallela, da una parte Werefkin, dall’altra Jawlensky, seguendo l’evoluzione dei due artisti. Dagli anni giovanili, in cui il talento della Werefkin emerge fin da subito, quando, allieva del grande realista russo Ilja Repin (1844-1930), dipinge uno stupefacente ritratto rembrandiano di Uomo in pelliccia, 1890, dalla pennellata vibrante ed atmosferica in cui è già possibile vedere con sguardo retrospettivo la potenza del colore che decide della forma (come dirà successivamente). Per vedere invece un’opera del compagno che cominci ad esprimere la sua personalità bisogna attendere il Tavolo nero, 1901, opera nella quale può intuirsi il rapporto che l’artista avrà in seguito con il colore. Nel 1896 la coppia si trasferirà a Monaco, lei salda nella scelta di smettere di dipingere per dedicarsi alla crescita artistica del compagno e per servire la causa dell’arte nuova nella veste di teorica e di agitatrice culturale (celebre sarà a Monaco il suo “salotto rosa”, nel quale si incontreranno personaggi del calibro, ad esempio, di Kandinsky e Munter e dove venne di fatto fondata la “Nuova Associazione degli Artisti di Monaco”, la NKVM).

Jawlensky, Autoritratto con cilindro, 1904

La mostra segue così la maturazione di Jawlensky, mostrando il serrato confronto con Van Gogh e la sua pennellata sincopata (Autoritratto con cilindro, 1904), considerato dal russo il “padre fondatore della moderna pittura espressiva”; al quale si aggiungerà quello con il colorismo fauve. Quando Werefkin, infine, riemergerà alla pittura, dopo un decennio di intense meditazioni intellettuali, le differenti concezioni artistiche tra i due sono evidenti. Se Jawlensky considera Gauguin “una meraviglia”, è però per Werefkin che la tecnica pittorica à plat del francese sarà una vera rivelazione (Autunno – Scuola, 1907) che, unita all’attenzione per la linea appresa da Ferdinand Holden e all’espressività di Munch di cui riprende impostazioni formali ed iconografiche (come ne La strada di campagna, 1907 o in Gemelli, 1909, dove si respira anche aria gauguiniana), la porterà a dare vita al suo personalissimo simbolismo figurativo che non abbandonerà più, proprio perché modo espressivo di una precisa scelta etica e morale che, unita ad una concezione messianica dell’essere artista, la spingeva a scegliere un linguaggio artistico di stampo figurativo (considerato meno elitario rispetto all’astrazione) ritenuto capace di comunicare quel sentimento di unione panica con il mondo, quella partecipazione totale alla vita e alla realtà che l’artista doveva assumere in sé e sublimare nell’opera; quel quid, insomma, che va oltre la realtà fenomenica e tutto avvolge e coinvolge (nel 1903 aveva scritto a Jawlensky: “Vedere ciò che non esiste è l’unico compito di ogni forma d’arte”). È la necessità di trasmettere questa concezione che ha mantenuto sempre la sua arte su un terreno figurativo, evitandone sviluppi astrattisti e portandola ad esprimersi su un registro che dall’immagine mistica e visionaria arriva a quella narrativa al limite dell’aneddoto. Con la loro forza espressiva le opere della Werefkin sono come parabole evangeliche: semplici e cariche di significato. Un senso che dopo la ripresa dei pennelli corre verso una speciale sensibilità drammatica che tutto pervade, ammantando i motivi in toni profondi e malinconici (in mostra: Al caffè, 1909 e I pattinatori, 1911), che mi sembra di vedere anticipato, ad esempio, in opere come Birreria all’aperto, 1907. Solo sul finire della sua esistenza, e le opere in mostra lo testimoniano, la pittrice stempererà, senza abbandonarla del tutto, questa sua vena drammatica sviluppando nelle sue opere quel sentimento sociale, solidale, fraterno che aveva conosciuto ad Ascona (“Bisogna accentuare nella mia arte l’aspirazione amorosa”, scriverà nel suo Diario del 1920).

Jawlensky, Testa mistica: Meditazione, 1918
Jawlensky, Variazione, 1918-19

Temperamento e vocazione diversi sono espressi nei quadri di Jawlensky: un ripiegamento interno, a partire dalla superficie del motivo, alla caccia dell’anima intima delle cose, invisibile ma capace di rivelarne l’essenza.  Tecnicamente questa necessità espressiva si risolve nell’impiego di un colore steso con pennellate corpose che alla fine del suo percorso artistico lo porterà, attraverso una serie di passaggi, alle sue celebri Meditazioni degli anni Trenta, anticipatrici di certa pittura informale. Primo passo saranno le Variazioni sul paesaggio, iniziate nel 1914, seguiranno le Teste mistiche, dal 1917, insieme ai Volti del Salvatore; successive di un anno, invece sono le Teste astratte. Serie che iniziano all’indomani del passaggio in Svizzera causato dallo scoppio della I Guerra Mondiale (prima sul lago Lemano, nel 1914, poi ad Ascona, dal 1918) e si concludono tutte, eccetto quella delle Teste astratte, nel 1922, dopo il definitivo trasferimento del solo Jawlensky con Helene Neznakomova e il loro figlio Andreas a Wiesbaden. Quest’ultima serie sarà abbandonata solo nel 1933, lasciando definitivamente il posto alle Meditazioni. Queste esperienze pittoriche sono molto importanti per seguire lo sviluppo formale dell’artista russo. Nelle Variazioni, concepite sul paesaggio lacustre, il colore, per la prima volta, riesce ad allentare la presa del disegno, ma la struttura del reale -per così dire- permane ancora, più o meno accentuata, nell’opera. Tanto è vero che nelle di poco successive Teste mistiche il disegno ritorna come nel tentativo disciplinare quei cromatismi che Jawlensky sembra non avere il coraggio di lasciare liberi; coeve a queste sono i Volti del Salvatore, nei quali i colori si ingentiliscono e comincia affiorare quel processo di riduzione geometrica che ritroveremo, con altra sicurezza costruttiva, nelle Teste astratte, in cui il volto è disposto con segmenti rettilinei, archi, forme a U e a L. Proprio in questa serie il colore si farà nuovamente protagonista, saturandosi, facendosi terroso e cupo, ispessendosi e vibrando di tocchi di pennello che si faranno più palpitanti fino a lasciare sulla tela solo l’ombra di una forma ormai deflagrata (Meditazione: Ricordo delle mie mani malate, 1934; Grande Meditazione: Ardore smorzato, 1936).

Jawlensky, Testa astratta: Forma primigenia, 1918

È una scelta perfetta, quella di aprire la mostra con i due autoritratti quasi coevi, perché in essi si può intuire il nócciolo delle due poetiche. Ad un primo sguardo i due quadri, quello di Marianne datato 1910, quello di Alexej, 1912, sono molto simili per il generale cromatismo e per l’impostazione, oltreché per il comune carattere espressionistico. Ma ad un’analisi più ravvicinata emergono le differenze. Prima di tutto lo sfondo. Vorticoso nel quadro della pittrice, coinvolge quel tutto che non si può rappresentare, ma che si intuisce nel fluttuare delle pennellate; esprime la compartecipazione dell’intero cosmo all’unico moto che tutto anima.  In quello del pittore, invece, esso è animato da un potente moto centripeto come se Jawlensky si sforzasse di assorbire l’energia vitale per concentrarla in sé; le pennellate, infatti, corte e rapide, indirizzano le forze verso il volto che le attrae magneticamente. Jawlensky, in effetti, non ci guarda, i suoi occhi fissano un qualche punto della sua anima; al contrario gli occhi rossi, infuocati, mistici di Marianne si dirigono verso lo spettatore, quasi a volerlo rendere partecipe della verità di quella comunione cosmica di cui voleva rendere l’immagine.

Jawlensky, Meditazione: ricordo delle mia mani malate, 1934

La mostra si chiude con una piccola stanza dedicata alle opere di Andreas Jawlensky (1902 – 1983), figlio di Alexej, in cui è bello vedere le influenze che il padre e la Werefkin hanno avuto sul più giovane artista.

La mostra è molto bella, solida e ben strutturata, segue un filo cronologico che permette di tracciare l’evoluzione e le concezioni teoriche dei due artisti. Sarebbe stata eccezionale se si fosse potuto vedere, al fianco di queste opere, anche qualche quadro degli autori più amati dalla coppia di artisti russi e di quelli con cui condivisero le loro ansie.

Museo Comunale di Ascona, via Borgo 34, Ascona (CH) ¦ 20 settembre 2020 – 10 gennaio 2021

Add Comment

Click here to post a comment