Vite di artisti (non) illustri

Vite d’artisti (non) illustri – Carpanetti

Arnaldo Carpanetti: realismo fascista e altre cose. (part.1 di 2)

di Elena Pontiggia

Lungamente dimenticato, se non coperto di disprezzo per la sua pittura legata ideologicamente al fascismo, Arnaldo Carpanetti, che è stato tra l’altro amico e collaboratore di Sironi, è in questi ultimi anni al centro di una certa attenzione critica, come esempio di arte di propaganda e di estetizzazione della politica: un’attenzione significativa, che però ha circoscritto solo ad alcuni esiti l’analisi della sua pittura.1

Carpanetti non è stato solo un artista di regime. Le celebrazioni del fascismo (da Incipit Novus Ordo, 1929, alla Transvolata atlantica, 1931, agli affreschi per il Palazzo della Corporazioni, ora dell’Industria, 1932) sono solo una parte del suo lavoro, che comprende anche, se non soprattutto, temi religiosi (Cristo apparve in mezzo a loro, 1923; San Sebastiano, 1928; La pesca miracolosa, 1930; San Cristoforo, 1940, ora al Museo del Novecento), storici (La morte di Ferruccio Ferrucci, 1930), simbolici (Bacchus imperans, 1927; Le tre semine, 1930), scene di figura (La lettera, 1925; Il ratto delle Sabine, 1929; Il mercato, 1930; L’offerta, 1932; Omaggio agli archi e le colonne, 1938; I due ladri, 1939), oltre ai ritratti, ai nudi, ai paesaggi. 

Nell’Italia tra le due guerre, in particolare, Carpanetti è stato l’artista che più di tutti ha affrontato la composizione di gruppo. Che la sua vocazione a una pittura gremita di figure sia stata congeniale all’esaltazione del fascismo, in sintonia con la sua fede mussoliniana, precoce e mai rinnegata, non deve far dimenticare questa sua unicità nel panorama artistico dell’epoca. Nessuno ha affrontato tanto sistematicamente le scene corali. Carpanetti ha ripreso una tradizione fiorita nel Cinque-Seicento, ma l’ha interpretata semplificando il disegno secondo il gusto novecentista. Da questa sua antitetica ispirazione è nato un curioso ibrido, che negli esiti migliori mitiga l’affollamento delle scene e l’enfasi dei gesti con una ripetizione ritmica e quasi irreale delle figure. La sua pittura si traduce, inizialmente, alla metà degli anni venti, in un novecentismo barocco, al contrario di Sironi e compagni che si ispiravano a un Trecento o un Quattrocento rarefatto. Alla fine del decennio l’artista abbandona invece le forme opulente, guardando anche lui al Quattrocento: non abbandona però l’opulenza della composizione, dove ripropone sempre i gruppi, la folla, la molteplicità delle figure.

 Incurante della difficoltà della composizione e della rischiosità degli esiti, Carpanetti si è cimentato fin dagli anni venti nel far grande, con una temerarietà alla Fitzcarraldo e alla Aguirre: paragoni meno peregrini di quanto possano sembrare, visto che da giovane aveva vissuto negli stessi luoghi. La sua misura smisurata, le sue miriadi di figure non lasciavano indifferenti i suoi estimatori, tra cui c’erano Carrà e Sironi, Nebbia e Margherita Sarfatti. Tutti rimanevano impressionati dalle imprese pittoriche che l’artista non temeva di affrontare, anche se non risparmiavano attacchi all’ingenuità e all’acerbità dei suoi lavori. Le sue opere, comunque, rivestono oggi due ordini di interesse. Quelle ideologiche, i grandi affreschi che rientrano nell’arte di propaganda, fanno comprendere per contrasto quanto Sironi e i maggiori protagonisti del “Novecento” siano lontani da un’arte di Stato. Quelle a carattere non ideologico, invece, mostrano un pittore singolare, sempre diviso fra richiami classici e umori barocchi, che sarebbe ingiusto appiattire solo sui suoi esiti apologetici.

Vediamo però qualche dato sulla sua vita. Carpanetti nasce ad Ancona il 15 gennaio 1898. Nei primi anni del secolo la sua famiglia emigra in Brasile, a Manaus, non lontano dalla foresta amazzonica. La città, che si era arricchita e ingrandita vertiginosamente con lo sfruttamento della gomma (la “febbre del caucciù” era esplosa pochi anni prima della nascita dell’artista), aveva assunto in quel periodo una fisionomia quasi europea. Nel 1896 era nato il Teatro dell’Opera – lo stesso in cui Herzog ambienterà alcune scene di Fitzcarraldo – mentre nel 1909 viene fondata l’università, la prima del Brasile. 

A Manaus Carpanetti compie studi d’arte e si fa notare ancora adolescente coi suoi dipinti alla Casa dos Italianos, che gli fanno vincere una borsa di studio per frequentare Brera. In Italia partecipa alla prima guerra mondiale, mentre nell’immediato dopoguerra aderisce al fascismo ed è presente all’adunata di piazza San Sepolcro. 2    Intanto segue in accademia le lezioni di Ambrogio Alciati, con cui si diploma nel 1923. 

Erede degli scapigliati, di cui aveva ripreso la pittura luministica e antivolumetrica, e in particolare di Tranquillo Cremona, di cui aveva imitato il gusto narrativo, Alciati è il maestro dei futuri chiaristi Del Bon, De Rocchi, Lilloni e De Amicis, che imparano da lui ad amare la pittura “impressionista” dell’Ottocento lombardo e nei primi anni trenta si staccheranno dal disegno solido e corposo del “Novecento”.

Lettera, 1925

Carpanetti manifesta invece un orientamento diverso. Lo si vede nella Lettera, 1925, una delle sue prime opere che conosciamo. Il quadro riprende da Alciati il soggetto sentimentale: La lettera è quella di un innamorato, che la ragazza legge e rilegge tra mille sogni. Lo stesso tema era stato affrontato da Borra, in un quadro esposto alla Biennale di Venezia del 1924, ma Carpanetti lo interpreta in un’accezione più intimista e con cadenze più sensuali. La figura è ostentatamente tridimensionale, in sintonia con la ricostruzione della forma attuata dal “Novecento”, ma la pennellata approssimativa e il colore cangiante non sono fatti per piacere al gruppo sarfattiano, che nei primi anni venti predica un disegno preciso. Carpanetti insomma, a questa data è per metà novecentista e per metà ottocentista.

La stessa contraddittorietà (un’accentuazione volumetrica, accompagnata però da un incipiente disfarsi della forma) si osserva in Studio di busto femminile del 1926: una figura traboccante, più vicina a Rubens che al quattrocentismo del “Novecento”. Non a caso lo stesso anno si tiene la prima mostra del movimento e l’artista non è invitato. 

Bacchus imperans, 1927

Carpanetti si fa notare invece alla Biennale di Brera del 1927, dove espone il curioso Bacchus imperans: un brindisi moltiplicato per mille, una sorta di ascensione laica (il modello, soprattutto nella parte superiore del quadro scorciata in un sotto in su, è l’Assunzione della Vergine delle opere seicentesche), ritmata dall’alzarsi delle braccia. Qualcuno la definisce “una scena d’orgia moderna”,3 ma in realtà, al di là di qualche nudo che si insinua nella composizione, quello che interessa all’artista è una somma di valori plastici, un affollarsi di masse scultoree più che dionisiache.

Il catalogo della mostra storce il suo nome in Carpanetto, confondendolo col più anziano pittore piemontese Giovan Battista Carpanetto (un equivoco che lo accompagnerà a lungo), ma la critica nota il Bacchus, segnalandolo accanto alle opere di Lilloni e De Amicis che vincono la medaglia d’oro. Giovanni Orsini, critico del “Popolo di Lombardia”, che con ogni probabilità lo conosce bene – è l’unico a non sbagliarne il nome – lo definisce “il più fascista” degli espositori per i suoi meriti artistici.4 Ma, oltre a Orsini, sono tre critici come Carrà, Margherita Sarfatti e Costantini ad apprezzare il giovane pittore, sia pure avanzando qualche riserva.5

Quasi a coronamento di tante segnalazioni, nel 1928 Carpanetti viene ammesso alla Biennale di Venezia dalla giuria per i giovani artisti, composta da Casorati, Sironi, Soffici, Maraini e altri. Il suo gigantesco San Sebastiano riprende, nell’impianto massiccio della figura, modelli seicenteschi da Rubens al Guercino a Guido Reni, mentre il colore è gravato da una tonalità cupa e sorda. Questa volta le recensioni rilevano impietosamente i limiti dell’opera, pur con qualche distinguo. Margherita Sarfatti colloca invece Carpanetti tra i migliori dei “giovanissimi”, tra i “nomi nuovi che domani saranno noti”.6 Non è un’apertura di credito casuale. In quel periodo il “Novecento” sta decidendo gli artisti che parteciperanno alla seconda mostra del movimento nel 1929 e Carpanetti è tra gli invitati. Del resto da Venezia l’artista invia alla scrittrice (con altri giovani milanesi, tra cui De Rocchi, Del Bon, Lilloni) un “deferente pensiero e tutti gli auguri”, sintomo di un loro rapporto cordiale.7

Pochi mesi dopo, nel novembre 1928, si apre alla Permanente la I Sindacale Lombarda. E’ la prima mostra indetta dal Sindacato Fascista Belle Arti della Lombardia e ha un Comitato d’onore presieduto da Bottai. Al ministro, anzi, alcuni giovani partecipanti, da Fontana a Lilloni, da Broggini allo stesso Carpanetti, chiedono di intervenire all’inaugurazione, ma ricevono una risposta negativa.8 Nella rassegna l’artista presenta per la prima volta quella pittura agiografica con cui il suo lavoro è sempre stato identificato e che si potrebbe considerare una sorta di “realismo fascista”, quasi un equivalente – mutatis mutandis – del realismo socialista. Mentre Sironi, per citare un artista non meno politicamente coinvolto di Carpanetti, non dà del fascismo un’immagine illustrativa e convenzionale (i simboli littori che entrano nei suoi quadri, alla metà degli anni trenta, sono appunto simboli: emblemi ideali, fuori dal tempo, che non rappresentano mai la vita spicciola del partito, tantomeno adunate, ritratti e gesti di Mussolini, gagliardetti, e sono immersi in un’atmosfera drammatica che li allontana da qualsiasi propaganda), Carpanetti riprende trionfalisticamente l’ascolto di un Discorso del Duce. E’ forse il primo quadro dipinto in Italia su questo soggetto e anticipa di undici anni il Premio Cremona, a cui l’artista non parteciperà mai, ma che nel 1939 avrà appunto tra i suoi temi la Ascoltazione alla radio di un discorso del Duce

F. Casorati, Le maschere, 1921

L’opera ha in primo piano una copia del “Popolo d’Italia”: un motivo introdotto da Casorati, che in Maschere, 1921, aveva dipinto un foglio della “Gazzetta del Popolo”. Carpanetti poteva averlo visto nella monografia di Gobetti del 1923,9 ma nel suo Ascolto il quotidiano acquista un’intenzione ideologica. L’artista immagina infatti che il discorso di Mussolini venga letto ad alta voce da un avanguardista davanti a un gruppo di giovani e meno giovani aderenti al partito, tutti in divisa, che lo ascoltano assorti ed entusiasti. La lettura, seguita parola per parola sul “Popolo d’Italia” da due figure in primo piano, assume l’aspetto di una funzione religiosa, di un’omelia laica e patriottica. A quale discorso si riferisce Carpanetti? Forse a quello del 10 ottobre 1928 sul ruolo dei giornali (“Nel regime totalitario […] la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio di questo regime”), come si potrebbe dedurre dal risalto dato al quotidiano di Mussolini? In realtà le opere da esporre alla Sindacale andavano consegnate entro il 15 ottobre, dunque l’ipotesi viene a cadere. Potrebbe alludere invece, visti gli ascoltatori, al discorso del 28 marzo 1928 sul “valore della Leva Fascista”, in cui Mussolini restringe le formazioni giovanili italiane solo ai Balilla e agli Avanguardisti. Il quadro ha però soprattutto un carattere paradigmatico: non questo o quel discorso ma tutti i discorsi del Duce, sembra dire Carpanetti, devono essere ascoltati con la stessa partecipazione e adesione.

L’opera, così rigida, non raccoglie elogi. La reazione della critica non ha nulla a che vedere col coro di incoraggiamenti che aveva accolto il Bacchus. Nessuno, tra i tanti commentatori della Sindacale, mostra di privilegiare o semplicemente di apprezzare il quadro in grazia del suo contenuto.10 Margherita Sarfatti, che non sopportava la celebrazione retorica del fascismo, tace. I loro rapporti rimangono comunque cordiali, e quando in dicembre la scrittrice è bloccata a Berlino da una breve malattia, Carpanetti le invia, con Lilloni, Barbieri, Ghiringhelli e altri, un sentito “augurio per la Sua prossima guarigione”.11 Ben più significativa degli auguri, comunque, è una lettera in cui lo stesso giorno, con vari firmatari, l’artista ribadisce la sua piena adesione al “Novecento”.

Questi i fatti. In una riunione del Direttorio della Sindacale, avvenuto il 17 dicembre, Sironi si era lamentato delle critiche di alcuni giovani contro la II Mostra del Novecento Italiano, che si sarebbe aperta tre mesi dopo. Carpanetti e compagni respingono le accuse, anzi dichiarano di “aver dato tutte le prove di fatto circa la loro radicata convinzione sul Novecento”, difendendone i componenti dai tanti denigratori.12

Non sono soltanto parole. Quando, nel marzo 1929, Margherita Sarfatti tiene una conferenza alla Casa del Fascio di Milano, Carpanetti viene addirittura alle mani con Edgardo Rossaro, un paesaggista legato alla tradizione ottocentesca che aveva criticato aspramente la scrittrice.13 Quando poi, nell’ottobre dello stesso anno, i futuristi espongono alla Galleria Pesaro, polemizza senza mezzi termini con Marinetti, accusandolo di essere ormai un passatista: “Punzecchia tutti. Provi a punzecchiare il pallone del futurismo e vedremo cosa succede […] Vedo i passatisti che vanno molto d’accordo con i futuristi per combattere il nemico comune che è il novecentismo[…] S.E. Marinetti non capisce niente di pittura”.14

Carpanetti, insomma, è ora uno dei più convinti aderenti al movimento sarfattiano. Alla seconda mostra del gruppo (2 marzo- 30 aprile 1929) espone un’elegante composizione di Nudi. Nell’atmosfera classicheggiante che aleggiava nella Milano degli anni Venti – come, del resto, in tutta Europa – il nudo, aborrito dal futurismo, era tornato a essere uno dei soggetti prediletti. L’artista lo interpreta però secondo il suo gusto, con una composizione di gruppo, e di nudi ne disegna cinque, con un effetto di sovraffollamento che costringe le figure a rubarsi il poco spazio disponibile. L’opera è una sorta di repertorio di “accademie”, e guarda ai nudi classici (il drappo della donna al centro ricorda quello della Niobide degli Orti Sallustiani) come ai nudi di Oppi e a Meriggio e Ragazze dormienti di Casorati, presentati rispettivamente alla Biennale veneziana del 1924 e del 1928. Il barocchismo precedente è ormai dimenticato e i commenti questa volta sono pochi (la mostra raccoglieva quasi tutti i maggiori artisti italiani, da Sironi a Carrà, da Campigli a Martini a Wildt, che calamitavano l’attenzione), ma positivi.

(continua)

NOTE

1 Si veda: Marla Stone, State as Patron, in Fascist Visions: Art and Ideology in France and Italy, a cura di Matthew Affron and Mark Antliff, Princeton 1993; Claudio Fogu, The Historic Imaginary: Politics of History in Fascist Italy, Toronto 2003; Silvia Bignami, Paolo Rusconi, Le arti e il fascismo. Italia anni trenta, Firenze 2012.

2 Come sansepolcrista lo indica Guglielmo Usellini, La Mostra, “Emporium”, vol. LXXVII, n.460, aprile 1933, p.218.

3L’Esposizione Nazionale di Brera, “Corriere della Sera”, 20 ottobre 1927.

4 Scrive Orsini: “Una nobilissima audacia, la grande tela […] di ebbre figure, composizione vasta che, alla prova, farebbe tremare più di un Maestro. L’aperta vena del focoso e infocato pittore si riversa e irrompe; dentro una lineare ascensione come dentro una straussiana sinfonia, delineasi l’orgia. Questo riattaccarsi alle tradizioni di un glorioso passato, col senso evolutivo del corrente secolo, anche se non del tutto maturo è ammirevole; e per esso, tra gli artisti della Permanente, Arnaldo Carpanetti diventa il più etico e il più fascista. Cadranno le scorie lungo il cammino. L’essenziale c’è.” (G. Orsini, L’Esposizione Nazionale d’Arte alla “Permanente” ringiovanita, “Il Popolo di Lombardia”, 20 ottobre 1927).

5 Carrà individua in Carpanetti “un temperamento di pittore secentesco” e trova che riveli una “sensibilità fortemente sanguigna” (C. Carrà, L’Esposizione di Brera, “L’Ambrosiano”, 24 ottobre 1927). M. Sarfatti osserva che nell’opera “manca ancora la sapiente unità nel fuoco della visione, ma vi è studio, diligenza, brio e carattere” (M. Sarfatti, La nuova Esposizione di Brera, “La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, novembre 1927, p.41). Costantini è il più entusiasta anche se mette in luce per la prima volta la tendenza a una certa sgraziata pesantezza, che sarà sempre il tallone d’Achille dell’artista: “Arnaldo Carpanetto ci sembra vada preso in seria considerazione. Ben trenta persone in un grande spazio ha saputo impostare un artista giovanissimo, che per la prima volta – almeno noi – incontriamo nelle esposizioni. Certo il Carpanetto è più vicino al Caravaggio che al Botticelli, presenta un mondo greve ed ha una mano, più che forte, pesante. Ma in alcune particolarità, attraverso la sua architettata composizione, notiamo spunti esaltativi che non erano discari [sgraditi] neanche al Previati. Nella colorazione vi è qualcosa di sgradevole, d’incongruente in alcuni rapporti tra toni verdi e caldi fumosi nerastri; ma i corpi sono pieni, pesanti, sodi”.(V. Costantini, La Mostra Biennale di Brera, “La Fiera Letteraria”, n.44, 30 ottobre 1927, p.5). 

6M. Sarfatti, Posizioni e problemi fondamentali alla XVI Biennale di Venezia, “Il Popolo d’Italia”, 19 maggio 1928; Ead., La XVI Biennale a Venezia,  ”La Rivista Illustrata del Popolo d’Italia”, VI, n.6, giugno 1928, p.47.  “E’ il pezzo su cui maggiormente la gente punta le sue critiche. Tuttavia in questo quadro vi è un’impronta e un disprezzo dell’artificio che a suo tempo darà frutti meno agri” scrive invece Carrà (C. Carrà, Alla Biennale di Venezia, “L’Ambrosiano”, 26 maggio 1928).“Il Carpanetto ha più scienza dei suoi colleghi ed una maggiore forza plastica, ma il suo S. Sebastiano, impostato sulla iconografia anticaè buio e pestonota Costantini (V. Costantini, L’arte contemporanea alla XVI Biennale di Venezia, “La Fiera Letteraria”, 6 maggio 1928, p.1). “Quel livido e squallido S. Sebastiano […] rivela una deviazione di concetto e di forma non pericolosa, visto che una certa severità di concetto lo vigila in questo suo così singolare sforzo di costruzione ed intonazione” osserva Nebbia (U. Nebbia, La XVI Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 1928, p.45). Per Torriano infine Carpanetti ha lasciato“il suo impeto nativo per ammanierarsi” (P. Torriano, In giro per la mostra, “L’Illustrazione Italiana”, ottobre 1928, p.16).

7A. Carpanetti e alii a M. Sarfatti, Venezia, 1 maggio 1928 (t.p.), Archivio Sarfatti, Mart, Rovereto.

8Daniela De Angelis, Il Sindacato Belle Arti, Roma 1999, p.35.

9Di Casorati Carpanetti non poteva conoscere invece Le mele sulla “Gazzetta del Popolo”, 1928, perché viene esposto per la prima volta a Torino, agli Amici dell’Arte, nello stesso periodo della Sindacale Lombarda.

10Costantini cita di sfuggita non il Discorso, ma ilfunesco Bagnino”, un lavoro dell’artista evidentemente influenzato da Funi ed esposto fuori catalogo (V. Costantini, Mostre milanesi, “La Fiera Letteraria”, 2 dicembre 1928, p.4), mentre Vincenzo Bucci definisce l’Ascolto “grande e appariscente”, ma con un’accezione lievemente negativa (V. Bucci, La I Mostra Sindacale d’Arte lombarda, “Corriere della Sera”, 18 novembre 1928).

11. Carpanetti e alii a M. Sarfatti, Milano, 18 dicembre 1928, Archivio Sarfatti, Mart, Rovereto.

12Bogliardi, Barbieri, Ghiringhelli, Carpanetti, Conte, Mazzon, Lilloni e altri, 18 dicembre 1928, Archivio Sarfatti, Mart, Rovereto.

13L’episodio è riportato in A. F. Della Porta, Polemica sul ‘900”, Milano 1930, p.47.

14M. Carpanetti, in Il Futurismo e il Novecento, testo della conferenza di F.T. Marinetti alla Galleria Pesaro e del successivo contradditorio, Milano, 18 ottobre 1929 (Los Angeles, The Getty Research Institute/ Research Library/ Special Collections, 920092). Ringrazio Gianluca Renoffio per il prezioso aiuto nelle ricerche bibliografiche.

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