Arte contemporanea Mostre

Mario Schifano. Qualcos’altro

Dimenticatevi le atmosfere pop dei “Futurismi rivisitati”, o le polaroid ritoccate degli anni più recenti se andrete a vedere “Qualcos’altro”, la mostra che la Galleria GiòMarconi di Milano dedica a Mario Schifano (Libia 1934 – Roma 1998). Perché vedrete, appunto, qualcosa d’altro rispetto ai lavori più popolari dell’artista romano. Opere probabilmente meno note e meno divertenti rispetto a quelle per le quali l’artista è diventato celebre, ma senza dubbio di vivo interesse se inquadrate in una prospettiva storica che abbracci sia il percorso personale dell’artista, allora poco meno che trentenne e che sarebbe diventato l’esponente più noto della cosiddetta scuola di Piazza del Popolo, sia il punto di vista dello sviluppo generale dell’arte italiana di quel torno d’anni, nei quali si andava registrando una generale reazione al periodo dell’esuberanza espressionistica informale, cercando di riportare nella pittura elementi più “stabili” e meno sottomessi all’espressività soggettiva dell’artista. 

Tempo moderno, 1962

In quest’atmosfera Schifano si concentrava per realizzare quadri che, pur non liberandosi totalmente dall’informalità dalla quale si allontanava (riscontrabile nella mancanza di omogeneità della stesura pittorica in alcune opere, nelle sbavature e nei rivoli di colore che colano rapprendendosi sulla carta, sia nella presenza proprio di quest’ultima: memoria della lezione materica di Burri) -ma si tratta pur sempre di un informale più freddo e studiato-; quadri -scrivevo- che non avessero l’ambizione di “dire nulla”, ma solo di “essere loro stessi”. E queste tele sono loro stesse nel grado minimo di pittura che mostrano: una sorta di assenza o di grado zero (secondo una lettura propria della critica coeva) che sembra veder dipinto, raddoppiato, in un’opera in mostra (Tempo moderno, 1962) in cui due cornici nere dipinte ricordano due zeri; uno zero che, nelle parole dell’artista era “uno zero speciale”, non proprio un azzeramento, ma “Era zero”. Ed in effetti questi due zeri sono speciali perché, così affiancati, richiamano il simbolo dell’infinito: infatti, senza limiti, infinito, è ciò che può essere accolto, rappresentato, registrato sui monocromi schermi (altra espressione che la critica di quegli anni andava impiegando, suggestionata, forse, dalla presenza sempre più persistente nel panorama quotidiano e domestico, dalla metà degli anni Cinquanta, della televisione, intesa propio come oggetto che visualizza immagini) dipinti da Schifano. Schermi che l’artista decide di riempire, con uno spirito che si può definire pop, attraverso inquadrature dell’indifferente iconografia urbana: già dai primi anni Sessanta i suoi quadri si caricano di richiami ai segnali stradali, di immagini e di loghi, di porzioni di scritte. 

Veduta dell’allestimento (II sala)
Elemento per paesaggio, 1962

Questa mostra mette in evidenza, attraverso un percorso espositivo condensato e abbastanza lineare, la densità e la concentrazione di questi pochi anni iniziali (tutte le opere sono datate tra il 1960 e il 1962), in cui la carta (libera o intelata, presente in tutte le opere) e gli smalti industriali (stesi con una sorta di consapevole negligenza) forniscono il supporto materiale per una ricerca artistica in cui le forme chiuse, le stesure cromatiche stesse, le cornici ferite da una pittura colante sono estrinsecazione della riflessione di Schifano sugli elementi di una grammatica pittorica elementare che non parla, quantomeno non unicamente, al fare pittorico in sé ma si rivolge alla dimensione umana e al suo ambiente. Questi monocromi e queste tracce minimali non hanno, per così dire, valore di per sé, ma rimangono ancorati alla relazione con le cose del mondo con le quali l’uomo contemporaneo aveva, ed ha ancora, a che fare: gli schermi televisivi e quelli fotografici, i segnali stradali, e pochissimi anni dopo i paesaggi e le fotografie… vi è un’opera, uno smalto su carta del 1962, che propone un Elemento per paesaggio e che non solo pare quasi riprodurre la struttura di un altro quadro, Isola di Capri, ma che curiosamente sembra riproporre, nell’accostamento di due cornici (una chiusa e una aperta), un impianto per affissioni pubblicitarie, uno di quelli che possiamo vedere lungo le strade.
Ecco, questo impiego di forme chiuse, primarie e semplici ha le tracce di un’astrazione non disgiunta da un concreto rapporto tra l’uomo e l’oggetto, tra l’uomo e l’ambito della sua vita e inserisce Schifano ancor più pienamente nell’orbita di una pittura romana per la quale il ricorso ad un’astrazione non immemore del suo rapporto con la vita e la società costituiva una rivendicazione potente: il gruppo Forma; d’altronde, Schifano, molti anni dopo, ricorderà che il primo monocromo lo mostrò ad Emilio Villa, il quale nel 1947 aveva presentato, all’Art Club, la prima uscita pubblica di alcuni esponenti del gruppo Forma.

Galleria GióMarconi, Milano – 22 gennaio 2020 ¦ 20 marzo 2020

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